Scritto da Graziella Brusa
Illustrazione di Domenico Laghezza
Un’intervista al poeta Marco Cavallero sull’ispirazione e sulla funzione della poesia nella vita contemporanea.
Ho chiesto a Marco Cavallero di confidarmi il suo approccio alla poesia, da quando era un bambino sino all’età matura, che cos’era che lo spingeva a scrivere poesie e come è cambiata con gli anni la sua esperienza creativa.
Inoltre sono sempre affascinata dallo spirito creativo dell’uomo, come se fosse l’ anima a disvelarsi attraverso precisi strumenti come la poesia, la musica, la narrativa, la pittura.
Come noterai leggendo l’intervista la musica ha una grande connessione con la poesia: fa risuonare in noi stessi i versi poetici.
La musica ed aggiungerei la voce possono aiutare ad esaltare i versi, dipende dal momento in cui la si legge, la si assapora.
La poesia è quasi sempre stata una lettura individuale, ma perché non farla diventare collettiva.
Insegnare a comporre poesia si può e a che cosa potrebbe servire, secondo te?
Sentiamo cosa ha da dire un poeta.
A che età hai iniziato a leggere poesie e quando hai iniziato a scriverle?
Il mondo dell’infanzia vive di poesia, di una cosiddetta poesia naturale, perché le cose stesse si animano, e alle domande più strane il fanciullo trova le risposte più fantasiose.
In genere, con il sopraggiungere della pubertà questa percezione del mondo viene a cadere, e un nuovo senso del reale si forma nella mente dell’individuo, per non lasciarlo mai più.
E’ però anche l’istante del risveglio dei sensi, della scoperta dell’amore, della necessità di metterlo in versi, forse perché troppo grande quel sentire, troppo nuovo, inusitato per non esserlo anche per il resto del mondo.
Di quelle poesie, di quei versi, di cui conservo ancora i quaderni, ormai ingialliti e stinti, non è il caso di parlare, non sono prove poetiche, ma parole nate nella ricerca di sé stessi.
Verso i tredici anni, in un supermercato vidi una raccolta poetica, molto completa, di Guido Gozzano, e chiesi a mia madre di comprarmela.
Fu una lettura indimenticabile, perché non legata agli obblighi scolastici, ma liberamente scelta. Quello è stato per me l’incontro con la poesia. Solo dopo la maturità, verso i ventun anni, posso dire di aver scritto i primi versi nati con consapevolezza, sono i versi di “Estasi pomeridiana”, una lirica che segna ancora oggi il canone della mia poetica.
Cosa significa per te scrivere poesie?
La ricerca della bellezza, che il verso deve saper cogliere, indipendentemente dall’argomento trattato, la sfida nel cercare, e a volte trovare, quella frattura del senso che sola crea un altro universo.
Nella poesia gli opposti viaggiano insieme, è una libertà e anche una necessità, frutto di un lavoro intellettuale e anche abbandono all’emozione.
Ci sono stati degli avvenimenti nella tua vita che ti hanno avvicinato alla poesia?
Tralascio il tempo dell’infanzia, e dell’incontro con Gozzano ho già detto. L’avvenimento principe è stato la scoperta del melodramma.
L’opera è prima di tutto un libretto in versi, e nel corso dei suoi quattro secoli di vita ha attraversato le forme poetiche più disparate.
Il singolare dell’opera è che i versi sono intonati, e la musica ne illumina i significati più reconditi.
Quando, all’epoca del liceo, ho studiato musica e il pianoforte, oltre alla letteratura pianistica mi sono immerso anche nel repertorio liederistico, connubio straordinario tra poesia e musica, voce, strumento e versi, accento parola e melodia.
Trovare la musica nella poesia, sentirla “suonare” dentro, è la strada del mio spirito guida creativo.
Cos’è per te la creatività?
Sperimentare.
Ma mentre il metodo scientifico impone un rigore oggettivo nella ricerca, e modalità di progettazione ed esecuzione protocollate e standardizzate, la ricerca artistica vive di percorsi individuali, di riscritture, di ripensamenti, e a volte di fallimenti, alla ricerca di quella impostazione della propria “voce”, che sola rende possibile l’espressività e la comunicabilità.
Dopo, il lavoro è tutto nel costruire il proprio castello, o “arredarlo”, come direbbe Umberto Eco…
Come trai l’ispirazione?
Una parola. Un pensiero. Una lettura. Un’aria. Una cantante. Un gatto. Una stoffa. Un mobile disusato. Le piccole cose umili e silenziose. Le buone cose di pessimo gusto del salotto di nonna Speranza.
Sono elementi del reale che parlano da soli, e ti chiedono di dar loro voce, di esprimerli, render loro giustizia, o trovare in loro il tuo significato. Quando tu li illumini, loro illuminano te.
Come strutturi le idee e le consolidi in un linguaggio poetico?
Cerco innanzitutto in me stesso quella impostazione, che sola mi mette in sintonia con “l’oggetto” della poesia, forma l’ideazione, e determina la scelta delle parole poetiche.
“le parole poetiche sono scarpe dalla foggia troppo antica, scomode…”
Mi tornano in mente questi versi scritti chissà quando, frammenti di una lirica dimenticata, che tuttavia rendono l’idea del mio percorso.
A volte è solo una sensazione, che lascio vibrare dentro me stesso, sino a quando le associazioni di idee non si coagulano in espressione.
Altre volte mi spinge una ricerca narrativa, perché è la storia stessa che, per il suo significato contraddittorio, diviene poesia.
Quale funzione ha la poesia?
Sociale, Ricreativa, Filosofica, Curativa, Rilassante…
Se fossi Pasolini direi che la poesia ha una funzione civile. Ma io non scrivo versi che abbiano questa responsabilità.
La poesia guarda la realtà, ma crea un immaginario. Dunque ha anche un aspetto ricreativo, tuttavia funzionale ad una rivelazione sul mondo, che è rivelazione del mondo, e disvelamento di un mondo altro.
Apre la mente, ma con un gioco, il corto circuito logico della metafora, regina di ogni figura retorica, chiave di lettura del mondo poetico. Leggere versi è un piacere, che coinvolge la mente e, attraverso la sua elaborazione, tutti i sensi.
Come tutta l’arte, non ha una funzione etero diretta, verso un qualcosa per il quale si rivela “efficace” o “curativa”, vive piuttosto in sé e per sé, e sopravvive se raggiunge l’animo dei lettori.
La tua poesia come la definiresti?
Se c’è una cosa alla quale sono allergico, sono gli “…ismi”, nei quali non mi riconosco, verso i quali direi con Montale:
“Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” .
Poesia delle piccole cose, poesia dell’anima, del rimpianto, del rimorso, del disincanto.
Quel che ci rende felici non fa poesia, perché è esso stesso poesia, a meno che non sia in qualche modo irraggiungibile, o proibito, come i fanciulli di Sandro Penna.
Penso tuttavia che i grandi temi del mondo, del pensiero, dell’animo passino attraverso le piccole cose.
In che momento della giornata leggi poesia e quando la consiglieresti?
Deve avvenire in un momento di distacco dagli impegni quotidiani, un istante tutto per sé, di silenzio, dove la musica dei versi possa cantare dentro di noi indisturbata, libera, in modo che il racconto del poeta possa divenire la nostra narrazione, e, se anche solo per un attimo, la narrazione che ci rivela a noi stessi.
In genere, leggo e scrivo la sera, quando il peso della giornata si scarica, mentre il coacervo di pensieri e sensazioni al contrario si coagula, e talvolta diventa poesia.
La poesia è una lettura attuale?
La poesia è sempre meravigliosamente inattuale, almeno da quando
“A noi ti vieta / il vero, appena è giunto, / o caro immaginar; da te s’apparta / nostra mente in eterno “ (Leopardi).
Nel mondo interpretato non c’è posto per la poesia, né ieri, ai tempi del Passero Solitario, né oggi, dove tuttalpiù è un passatempo.
Credere nell’attualità della poesia significa rinunciare allo storicismo, al concetto di passato, di progresso di evoluzione. E, tuttavia, proprio questa sua inattualità la rende più che mai necessaria oggi, perché uno dei bisogni vitali dell’uomo è il fantasticare, e la sfera razionale non può imprigionarlo.
L’industria culturale ha assimilato questo bisogno incanalandolo in prodotti di consumo, cinema, televisione, canali web e digitali, epurandolo della sua funzione più profonda: la destabilizzazione del sapere acquisito; il poeta è un funanbolo, che costringe chi lo legge allo stesso pericoloso esercizio di equilibrio.
La poesia non vende. Secondo te perché?
Non è merce per il grande pubblico.
Gli estimatori sono un gruppo ristretto, e l’editoria non è interessata a promuovere e vendere un prodotto con un target così basso. Il problema è a monte, l’Italia è un paese dove tutti scrivono e dove nessuno legge, e fra tutti i generi letterari snobbati dal grande pubblico, la poesia sta al primo posto. La scarsa attenzione della scuola e della politica è fra le cause prime, cui si aggiunge il classico malcostume italiano, correre cioè in soccorso al vincitore, e cercare all’estero quelle radici profonde che si negano in patria: così il melodramma, che noi abbiamo inventato, langue relegato in spazi cosiddetti di nicchia, la stessa musica classica, non studiata né insegnata a scuola, perde il suo pubblico.
Siamo italiani, popolo di navigatori cantanti e poeti, che difficilmente si alza dal divano di casa.
Insegnare a leggere e a scrivere poesie alle elementari può essere utile?
Perché alle elementari? Non so cosa si faccia adesso, ma ricordo perfettamente le mie maestre leggere, dettare e farci imparare a memoria le rime classiche di Carducci, Pascoli, Rodari ecc. Piuttosto è nella scuola secondaria superiore che la poesia si perde, un po’ per scelta dei docenti, un po’ per indirizzo ministeriale, dove si prediligono altre forme di didattica della letteratura. Già ai miei tempi, or sono più di quarant’anni, non solo non mi è stato insegnato nulla sul ‘meccanismo’ della poesia, la metrica, le figure retoriche, le strutture strofiche e così via, ma neanche facemmo un solo esercizio di poesia, come se, se ne potesse parlare sì, ma solo in terza persona, e in senso storicistico. A furia di mettere la poesia su un piano sempre più elevato, e quindi lontano, ha finito per diventare come quei servizi di piatti dono di nozze, che a forza di non usarli finiscono in cantina, o nel cassonetto…
Estasi pomeridiana Alimenti al colmo di vacanze improbabili desideri sonnacchiosi dispersi per viali spenti modellato ad un silenzio roco di paese Sentore di brezza marina i tuoi occhi irrigiditi e colpevoli, e vagano -oppressi e ridicoli- da questo inquieto senso di provvisorietà rude odore di pioggia freddo autunnale mare d’inverno agghiacciata questa città nella fissità della tregua estiva Leggi. Nel vento e nelle acque Nelle pozze vivide delle sue mani Nel movimento inerziale dei suoi capelli -in città corpi rappresi, solitudine dell’abbandono- Nelle colonne senza parole Nelle fontane che cantano a sé stesse Nei giardini svuotati e inconsapevoli stazioni senza ritorni bruchi dispersi in circoli viziosi. Nella fuga furtiva d’acre fumo bagnato lento spegnersi del respiro: immersa in un anelito senza confini è l’ombra gentile della speranza fra resti di case spezzate echi rotte di un estraneo. Torino, agosto 1984
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